Questo articolo è una raccolta di parole chiave della pedagogia elaborato da insegnanti di scienze delle scuole secondarie di secondo grado. Buona lettura!
Errore, Interculturalità, Mediazione di Giorgio Vacchiano
Errore
Per coscientizzare l’allievo ed evitare la violenza nei suoi confronti, è necessario considerare l’errore per la sua vera natura: il risultato di una ipotesi operata dall’allievo e applicata al problema in questione. La pedagogia attiva dovrebbe infatti mirare proprio a creare problemi, intesi etimologicamente come “cose poste davanti allo sguardo” che chiamano la ricerca di una soluzione e l’attivazione di strategie di riflessione e creatività.
K. Popper teorizzò l’apprendimento per prove ed errori come fondamento del metodo scientifico, ma anche come modalità essenziale di apprendimento da parte degli esseri viventi. Il confronto delle ipotesi erronee con la realtà è determinante per raffinare le ipotesi e arrivare a modelli interpretativi più funzionali della realtà. Secondo Agassi, non ci sono metodi che impediscano di commettere errori, pertanto identificare l’errore con la colpa è arbitrario e privo di significato. La correzione dell’errore alimenta la dialettica tra errore e verità (R Perrini, “Pianeta scuola”, Armando Ed., Roma 2002).
Occorre dunque evitare sia una pedagogia punitiva che una “non direttiva” (trascurare l’errore per non mettere in difficoltà l’allievo), e considerare l’errore come momento essenziale dell’apprendimento. Anzi, si cercherà di proporre problemi che mettano l’allievo in condizione di incorrere in errori, perché possa essere stimolato a formulare ipotesi e impari a metterle alla prova. Per fare questo è essenziale che il docente abbandoni il ruolo di depositario della verità (superiorità, sfruttamento dell’errore dell’allievo per affermare se stesso) e che crei un clima di classe-comunità (Scuola di Barbiana, “Lettera a una professoressa, Einaudi, Firenze 1976)permeato da relazioni positive, in cui la discussione degli errori sia parte integrante della vita comune, immune da sensi di colpa suscitati dall’insegnante o dai compagni (accettazione dell’errore sia sul piano razionale che emotivo). Anche l’errore dell’insegnante potrebbe trovare un giusto posto in un simile approccio didattico.
Interculturalità
Il 26% dei ragazzi in età scolare in Italia proviene da una cultura non italiana (come prima o seconda generazione), con valori che possono variare da 0% al 50% a seconda della scuola (dati: “Rapporto nazionale 2013/2014: Alunni con cittadinanza non italiana”, MIUR, Quaderni ISMU 1/2015). L’attualità relativa ai fenomeni migratori impone all’attenzione il tema del rapporto tra culture e dell’insegnamento a ragazzi provenienti da culture differenti (181 Paesi rappresentati in Italia, più le molte culture “senza passaporto”). Alcuni esempi delle sfide che si possono riscontrare: il prevalere di una cultura della parola o dell’esempio, le diverse realtà significate da parole come “famiglia”, le difficoltà create dalle leggi sull’immigrazione (o anti-immigrazione?) e sulla cittadinanza della Repubblica Italiana, le competenze linguistiche, le grandi aspettative dei genitori sul successo scolastico dei figli come fonte di riscatto sociale, le sfide dell’integrazione che riguardano anzitutto le famiglie di provenienza.
L’integrazione-intercultura, intesa come azione che faccia avvenire l’incontro e che tenga conto delle caratteristiche proprie di ogni minoranza (ma ancora diversa dall’inclusione-transcultura, per la quale le differenze sono fonte di ricchezza reciproca e contribuiscono alla creazione dell’universo di valori complessivo) dovrà porre attenzione ai seguenti aspetti in particolare: pedagogia dell’accoglienza (soprattutto nelle prime settimane), curare il rapporto con le famiglie, favorire la creazione di loro legami con il territorio, partire dalle tradizioni locali, insegnare il significato della storia personale di ciascuno – ma anche saper proporre storie alternative, favorire l’incontro mediante mediatori o supporti pedagogici (il cibo, il gioco, il vestire, la religione, la lingua – cfr. in particolare “Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri”, MIUR 2014), sfruttare la rete educativa (ASL, assistenti sociali ecc.), gestire i conflitti come occasione di confronto costruttivo e non come difficoltà da evitare.
Si manifesta quindi la necessità di andare ben oltre un semplice approccio di convivenza o tolleranza, ma di avventurarsi a incontrarsi (spesso: scontrarsi) con l’altro, e accettare la ferita che inizialmente questo ci provoca. L’incontro con l’altro “allarga i nostri orizzonti e ridimensiona certezze (…) Quando si dilata fino a coinvolgere le sue radici e le sue speranze, la sua storia e il suo mistero, allora l’incontro dell’altro si fa accoglienza, (…) parametro di crescita della persona” (C Laneve, “Incontro e accoglienza: vie per la solidarietà”, La Scuola Ed., Brescia 1999). Un incontro che si esercita prendendo le distanze sia dall’universalismo (assimilazione delle differenze) che dal relativismo (ideologizzazione delle differenze), che sia paritario e plurale, e che punti al riconoscimento della pari dignità delle culture, intese come approcci di interpretare il reale, e al conseguimento della reciprocità.
Mediazione
Compito essenziale dell’educatore/insegnante è instrumentare gli allievi a interpretare la realtà, a produrre concetti e a trasferirli da un significato all’altro. L’insegnamento si articola in un continuo rimando tra limite (quel che non so) e potenzialità (quello che potrei sapere), ma ogni apprendimento umano avviene mediante mediazione, diretta o indiretta, di un altro essere umano (“per sapere devo imparare da chi sa”). Questo perché tra oggetti sensoriali e oggetti mentali c’è una fondamentale incompatibilità; generalmente, gli oggetti sensoriali devono prima essere tradotti in oggetti mentali per poter essere comunicati, memorizzati e utilizzati in modo ripetitivo o creativo.
L’azione di mediazione dell’insegnante si può esaminare sotto diversi punti di vista: 1) nell’insegnare ai ragazzi a imparare, spiegando loro i gesti mentali necessari a prestare attenzione, riflettere e memorizzare messaggi didattici, nel rispetto del loro stile cognitivo preferenziale e esplicitando le tecniche richieste nel corso del dialogo pedagogico (A de la Garanderie, “I mezzi dell’apprendimento e il dialogo con l’alunno”, Erickson, Trento 2003); 2) nel favorire la partecipazione attiva degli alunni all’azione educativa; 3) nel creare un clima di classe favorevole – infatti una corretta gestione della classe è ritenuto il fattore singolo più importante per un apprendimento di successo (Wang et al., “What helps student learn?”, Educational Leadership 1993/1994, pp. 74-79). La ricerca scientifica recente concorda nel ritenere fondamentali le relazioni che si creano tra insegnante e allievi per una buona gestione della classe e una efficace prevenzione dei comportamenti problematici; il supporto positivo del docente mediante i messaggi non verbali (Jones), la sua partecipazione consapevole (e non distaccata) alla vita di classe (Kounin), la trasmissione delle abilità insieme al contesto in cui applicarle (Brophy), l’assertività (Canter), la comunicazione chiara degli obiettivi di apprendimento e il riconoscimento dei bisogni e delle dignità degli studenti (Marzano) sono alcune strade che la ricerca ha indicato per giungere a una mediazione efficace degli apprendimenti (L d’Alonzo, “La gestione della classe”, La Scuola Ed., Brescia 2004).
Mediazione, Incidente Critico, Resilienza di Elisa Corteggiani Carpinelli
Mediazione
Molto nell’apprendimento è un fatto di mediazione. Le immagini mentali che riusciamo a creare di fronte ad un oggetto sono i mediatori fra il mondo degli oggetti e quello delle idee, sono i ponti verso l’esperienza intellettuale o astratta che consente l’apprendimento1. In un discorso, come è quello pedagogico, in cui si ricerca la comprensione fra due parti, usare esempi esplicativi significa usare mediatori fra le conoscenze che l’educando possiede già e le nuove conoscenze che l’insegnante cerca di trasmettergli.
Nel rapporto educativo l’insegnante cerca costantemente la connessione con gli alunni ed ha l’impegno di trovare tutti i mediatori possibili perché questa connessione si attivi e continui a funzionare per accompagnare gli alunni nella loro crescita educativa. “L’educazione è sempre stata relazione, tra l’insegnante e l’alunno, mediata dall’oggetto dell’insegnamento […] ed è straordinariamente importante per l’educatore, la capacità di amare e di inventare ogni giorno metodi e tecniche” dice Paulo Freire durante un’intervista in Italia nel 19892.
La connessione fra l’insegnante e gli alunni passa come prima cosa attraverso la conoscenza e la consapevolezza delle storie di ciascuno e poi attraverso tutti i ponti di connessione che si riescono a creare fra queste storie. Dietro all’insegnante e ai suoi alunni ci sono storie di crescita e di quotidianità, di stimoli intellettuali e materiali, di lingue, suoni odori e ricordi familiari molto spesso diversi. Tutte queste storie si possono e si devono conoscere, valorizzare, condividere e devono essere il punto di partenza per stabilire un linguaggio comune, per chiarire quali sono gli obiettivi comuni e dobbiamo valorizzare il contributo di ciascuna di queste storie nel percorso verso gli obiettivi di apprendimento comuni, un percorso nel quale gli alunni sono i protagonisti del proprio apprendimento. Conoscere queste storie e trovare molteplici mediatori fra di esse significa accoglienza3.
Infine mediatori possono gli alunni provenienti da altre culture che diventano mediatori fra la famiglia e il mondo nuovo e viceversa, perché imparano la lingua nuova senza però dimenticare quella materna, fondamentale patrimonio di passaggio, in una comunità dove tutti si chiedono, attraverso l’immaginazione, come sarebbe essere qualcun altro3.
Referenze
- Antoine de La Garanderie “I mezzi dell’apprendimento e il dialogo con l’alunno”
- Dialoghi con Paulo Freire (1989) intervista di alcuni docenti italiani a Paulo Freire
- Andrea Canevaro, frasi in una riflessione rivolta agli insegnanti nell’ambito di un progetto pedagogico per il Comune di Ravenna
Incidente critico
Nel processo educativo la violenza è da evitare in tutti modi, l’insegnante deve gestire l’ambiente educativo in modo tale da creare un clima positivo nel quale gli eventi di rottura vengano prevenuti. Un ambiente nel quale ci si confronta sempre, perché ci si riconosce e nel quale i conflitti si affrontano e si superano. Eppure gli incidenti anche in un clima come questo avvengono. Avvengono perché fanno parte del nostro vissuto. Per evitare che questi eventi sospendano in modo indeterminato i rapporti e interrompano il confronto gettando la comunicazione nell’incomprensione è importante imparare a porsi domande, a capire gli incidenti e ad usarli come punti di partenza per gettare nuovi ponti. Quando riusciamo a trasformare un atto di rottura nell’occasione per trovare nuove soluzioni e costruire nuovi rapporti abbiamo trasformato un incidente in un incidente critico. Un esempio molto forte di incidente critico viene presentato da Andrzej Wajda nel film che racconta la storia e la pedagogia del Dottor Korczak1. Un adolescente che ha appena perso la sua famiglia in mezzo agli orrori dell’occupazione nazista entra a far parte della comunità dell’orfanotrofio e si rende protagonista di uno scontro con un ragazzo più grande e già ben inserito che però sta affrontando la sua vita e i dolori della guerra interiorizzando il senso di inferiorità che il razzismo nazista sta cercando di imporre. L’incidente viene affrontato dando ascolto e accoglienza al vissuto di ciascuno, creando nuovi canali di comunicazione e gettando le basi per nuovi e rinnovati rapporti umani. Nella nostra quotidianità di insegnanti occasioni come queste ci vengono offerte ogni volta che uno studente ha la sensazione di non essere capito nella classe o nel rapporto con l’insegnante, ogni volta che ci pone difronte ad una rottura perché non riesce a capire gli obiettivi o a trovare la strada per raggiungerli. Sono tutti incidenti che non dobbiamo lasciare sospesi ma dobbiamo trasformare in incidenti critici.
Referenze
- Film “Dottor Korczak” (1991) di Andrzej Wajda
Resilienza
In biologia l’omeostasi è la capacità degli organismi viventi di mantenere il proprio equilibrio interno di fronte al variare delle condizioni esterne che lo influenzano. In psicologia si chiama resilienza la capacità di far fronte in maniera costruttiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, senza perdere la propria umanità. Andrea Canevaro in “Bambini che sopravvivono alla guerra” definisce la resilienza come “la capacità non tanto di resistere alle deformazioni, quanto di capire come possano essere ripristinate le proprie condizioni di conoscenza ampia, scoprendo uno spazio al di là di quello delle invasioni, scoprendo una dimensione che renda possibile la propria struttura”1.
Questa categoria è estremamente importante tanto nell’educazione dei bambini quanto in quella degli adolescenti e degli adulti. Tutti sono sottoposti agli urti della vita e anzi crescendo si perde l’elasticità istintiva necessaria per affrontarli, e si sviluppa al contrario rigidità. E’ per questo che è compito dell’educazione a tutti i livelli insegnare la resilienza e insegnare in modo guidato e protetto a mettere in crisi tutto ciò che è precostituito, perché solo così si ri-inizia veramente ad imparare. Nella mia esperienza insegnare la resilienza sta diventando sempre più importante in particolare fra gli adolescenti.
Referenze
- Canevaro, A. Malaguti, A. Miozzo, C. Venier (a cura di), “Bambini che sopravvivono alla guerra”, Trento, Erickson, 2001
Scuola, Relazione, Coraggio di Amare di Stefano Beluzzi
Scuola
La parola scuola significa commento delle cose che ci circondano, far scuola significa commentare la realtà di appartenenza, ma commentandola liberamente.
La scuola ha lo scopo di farci rapportare alla parola, tutto diventa significativo nella nostra società quando diviene parola.
Nella scuola si impara a significare la propria vita, si impara la Cultura, si impara ad imparare e ci si educa alla conoscenza, all’estetica, all’etica e alla politica tramite la relazione educativa.
Vorrei partire da questa parola chiave perchè penso che sia fondamentale avere in mente quale sia il lavoro che siamo chiamati a fare come educatori!
Il lavoro dell’insegnante non è facile: “Gli insegnanti prendono ogni giorno circa cinquecento decisioni di conduzione della realtà di classe, che rende il loro lavoro secondo solo come complessità e stress a quello dei controllori di volo del traffico aereo” (d’Alonzo); ciò che mi affascina di questo complesso lavoro è il servizio che questo apporta, l’insegnante non è a scuola per se stesso, è a scuola per i ragazzi, loro sono il centro dell’azione (dott. Korzack).
L’obiettivo che si vuole raggiungere è molto alto e bisogna tenerlo sempre in mente, l’insegnante non ha il compito di trasmettere dei concetti fine a se stessi per poter poi dare un voto e un giudizio, ha il compito di educare i ragazzi, tramite la disciplina che insegna, ai valori della vita e di fornire gli strumenti per poter essere in grado di commentare liberamente la realtà.
La scuola non deve vivere fine a se stessa facendo studiare solo per il voto al fine di selezionare (Lettera ad una professoressa), c’è in gioco molto di più e i primi a doverlo capire sono gli insegnanti e le famiglie.
Relazione
La conoscenza si fonda sulla relazione con l’essere e questo fa fare esperienza. La relazione educativa si crea sia con il gruppo classe che con il singolo individuo. E’ fondamentale creare una buona relazione, perchè: aiuta il processo di insegnamento – apprendimento che è uno scambio sentimentale, aiuta a capire la persona e a contestualizzarla, aiuta a lavorare sugli errori senza sentirsi giudicati, perchè la persona non è il suo errore, ma accompagnati (devo potermi fidare del mio educatore e devo sentire che vuole il mio bene, anche se magari non lo capisco subito), aiuta a gestire il conflitto senza sfociare nella violenza.
La relazione deve essere dinamica e interessata, l’allievo capisce di non sapere e trova nell’insegnante qualcuno che possa aprirlo a nuovi orizzonti, viene passata conoscenza attraverso una determinata disciplina; l’insegnante che conosce esercita un potere e questo determina una gerarchia; con il passare del tempo scambiando conoscenza l’allievo viene messo nella condizione di arrivare a parità con il proprio insegnante e di superarlo (penso che sia la soddisfazione più grande). Se viene a mancare questa componente dinamica, la relazione diventa patologica e il potere esercitato diventa dominio. Questo si vede molto bene nel karate-do, che pratico, alcuni maestri giapponesi per paura di perdere allievi insegnano solo parzialmente e non c’è modo di crescere e diventare autonomi, costringono le persone a rimanere vincolate a loro, così però si perde il senso della relazione allievo-maestro e l’arte stessa perde di significato.
Un educatore che si mette in gioco nella relazione con i propri ragazzi, in grado di amare è capace di creare dove apparentemente non c’era nulla (Paulo Freire).
Ho scelto questa seconda parola, perchè è la chiave che permette di svolgere il lavoro dell’insegnante, senza la relazione non c’è modo di insegnare né di educare.
Il Coraggio di Amare
La prima virtù da costruire come educatori è il coraggio di amare, personalmente penso che sia la cosa che si tiene meno in conto o si dà per scontata, ma si deve amare: amare il processo educativo stesso, amare la pratica educativa e amare lo studente indipendentemente dal fatto che a lui piaciamo o meno (Paulo Freire).
Senza l’amore tutto questo lavoro perde di significato e diventa sterile; penso sia l’ultima cosa di cui hanno bisogno i ragazzi, l’esempio più sbagliato è far vedere che non si ama il proprio lavoro, che di conseguenza significa non amare i ragazzi stessi e loro questo lo sentono benissimo.
Non si può dare un ordine alle virtù, sono tutte necessarie: l’umiltà, la coerenza, la paziente impazienza, la curiosità; vanno tutte tenute in considerazione sempre quando si educa.
La spinta viene dall’amore per questo lavoro a cui seguono le altre virtù per svolgerlo al meglio, penso che questi concetti siano la linfa che alimentano l’azione educativa e bisogna sempre allenarli tramite la formazione e il continuo mettersi in gioco altrimenti si viene logorati dalla routine, si perde la rotta e si rischia di fare più male che bene.
Se avessi la possibilità di diventare insegnante cercherei sempre di portarmi dentro queste parole e di metterle in pratica, proprio per la responsabilità a cui sono chiamato: educare e formare altre persone attraverso lo studio delle scienze.
Referenze
- “La gestione della classe”- Luigi d’Alonzo, editrice La Scuola;
- “Lettera ad una professoressa” – Scuola di Barbiana, Storia d’Italia Einaudi;
- film Dottor Korzack (1991) di Andrzej Wajda ;
- video intervista Paulo Freire;